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 Editoriale di HTML.it

  Teheran, l'informazione e gli internet café
    Sabato 19 maggio 2001

La notizia è di qualche giorno fa. A Teheran, nel giro di poche ore la polizia ha chiuso 400 internet café. A quanto pare, soltanto le numerose proteste di gestori e utenti hanno impedito la chiusura di tutti gli internet café di Teheran, che dovranno in ogni caso dotarsi al più presto dell'apposita licenza, vale a dire di uno strumento tramite cui lo stato possa esercitare il suo controllo che, non è difficile immaginarlo, sarà il più ferreo possibile. Insomma anche in Iran, come già in Cina, è scattato il primo, consistente giro di vite contro la Rete.

Per capire fino a che punto questa affermazione corrisponda al vero, vale la pena ricordare che in Iran, come pure in tutti gli altri paesi che hanno tariffe telefoniche troppo alte e un reddito medio troppo basso per consentire una piena diffusione di modem e computer, gli internet café costituiscono, se non l'unica, certo la principale modalità di accesso ad Internet. Il che spiega perché mai una città come Teheran ne ospiti in così gran numero (circa 1.500, ormai ridotti a 1.100). Inoltre si tratta di posti in cui la gente, soprattutto i giovani (che in Iran rappresentano largamente la maggioranza del paese), possono incontrarsi, parlare, discutere, ecc. – tutte attività, queste, che un regime come quello iraniano non può certo vedere di buon occhio.

Secondo fonti semiufficiali, la chiusura non sarebbe dovuta direttamente a una esplicita volontà di aumentare controllo e repressione, ma al fatto che molti utenti utilizzavano le connessioni per effettuare telefonate a basso costo, frodando in tal modo l'unica compagnia telefonica autorizzata a gestire questo genere di telecomunicazioni – compagnia che ovviamente appartiene allo stato e opera in regime rigidamente monopolistico.

Non è una motivazione inverosimile, anzi è molto probabile che la causa immediata sia stata proprio questa. Del resto, perché i vertici dello stato avrebbero dovuto preoccuparsi di giustificare un provvedimento contro la libertà d'informazione affaticandosi a nasconderlo dietro giustificazioni di carattere economico? La libertà d'informazione, la libera discussione, sono da quelle parti dichiaratamente nemiche dell'ordine costituito, e permettersi di pensare con la propria testa è esplicitamente considerato un peccato capitale contrario tanto all'ordine divino quanto a quello umano.

Il fatto è che, come sanno bene tutti gli economisti del civilissimo occidente, soprattutto nei paesi "in via di sviluppo" repressione politica e interessi economici sono forze strettamente interconnesse, come balza perfettamente agli occhi anche in un episodio tutto sommato marginale come questo. Marginale, s'intende, solo se paragonato ad altre vicende, letteralmente sconvolgenti, come ad esempio la feroce repressione degli studenti uccisi a decine negli scontri con la polizia perché si erano permessi di chiedere, guarda caso, maggiori spazi di libertà e di informazione.

Episodi del genere, va detto, non hanno avuto luogo solo a Teheran. In Cina, ad esempio, la repressione non ha avuto (né ha tuttora) neppure il bisogno di un minimo paravento "legale". Lì hanno chiuso tutti gli internet café esistenti nella principale strada di Pechino e nei pressi degli edifici governativi e scolastici con il fine dichiarato di controllare ancora meglio la libera navigazione sul Web. Come apprendiamo da un ben informato articolo non nostro: "Nella parte centrale della via della Pace celeste e in un raggio di 200 metri attorno alla sede del partito comunista cinese, del governo e delle scuole non si potranno più vedere caffè che consentono l'accesso a Internet. Vengono invece salvate la prerogative dei centri commerciali (con superficie maggiore a 5mila metri quadri), gli alberghi internazionali e gli uffici, che non sono compresi in queste nuove regole restrittive della navigazione in Internet.”

Ora, non è un mistero per nessuno che ogni regime totalitario, vecchio o nuovo che sia, ha bisogno di occupare stabilmente tutti i mezzi di comunicazione esistenti, in modo da poter amplificare la propria voce, gestire la propaganda ed emarginare i dissenzienti. È accaduto oltre mezzo secolo fa in Italia e Germania, per esempio, quando gli unici mass media conosciuti erano ancora i giornali e la radio, e accade oggi nella Serbia di Milosevic (che a quanto pare è però finalmente riuscita a emenciparsi) e nella Russia di Putin, dove il ruolo del leone è giocato dalla televisione. Accade, com'è noto, anche altrove. Il fatto nuovo, che rende gli episodi di Teheran e Pechino due significativi campanelli d'allarme, è che adesso questi due regimi, entrambi autoritari e repressivi, stanno cercando di prendersi anche Internet.

Che però, rispetto ai media tradizionali, presenta almeno una differenza sostanziale. Televisione, giornali e radio sono mezzi di comunicazione a senso unico, vale a dire che si reggono su un unico centro produttore del messaggio e poi su un numero indefinito di riceventi passivi, che sul messaggio non possono in nessun modo intervenire: possono solo leggerlo, o ascoltarlo, o guardarlo. Nient'altro. Invece Internet non solo è un mezzo di comunicazione interattivo, ma è anche una rete distribuita che non si basa su un nodo centrale unico, bensì su una pluralità di nodi che continuerebbero a lavorare anche se e quando gli altri smettessero di funzionare. È nota l'esistenza di un progetto risalente agli anni '60 che prevedeva la costruzione di una rete telematica simile a quella appena descritta, cioè simile ad Internet, per utilizzarla in caso di attacco nucleare. Quand'anche fosse saltato qualche nodo, l'esercito e suoi funzionari avrebbero potuto continuare a comunicare in ogni caso. Di qui il mito della Rete come mezzo di comunicazione assolutamente incontrollabile, e dunque portatore, a priori, di un enorme potenziale di libertà, dato che non esiste forza al mondo capace di impedirmi di pubblicare o di leggere online ciò che voglio.

A quanto pare, invece, tali forze esistono. E purtroppo non si fondano soltanto sul potere che hanno i governi di chiudere qualche internet café. Queste sono vicende che servono a fare notizia, ma si tratta di episodi tutto sommato marginali nella lunga, interminabile lotta fra potere politico-economico e libera informazione. Il problema vero è che questi paesi controllano l'accesso alla rete, vale a dire che possono imporre filtri di vario tipo ai provider e quindi decidere cosa l'utente comune può vedere e cosa no. Non che si tratti di un privilegio dei soli paesi autoritari. Anche nei democraticissimi USA, l'FBI controlla pressoché tutto l'enorme traffico di messaggi scambiati online. Certo, il fine è quello di reprimere il crimine, però di fatto ciò che l'FBI fa è tenere sottocontrollo ogni singolo cittadino che decida di scrivere un'e-mail. Alla faccia di tutte le leggi sulla privacy.

I fatti di Teheran e quelli di Pechino ci ricordano che nemmeno uno strumento così meravigliosamente duttile come Internet può, da solo, garantire la libera circolazione delle informazioni. Per il semplice fatto che nessuno strumento, in sé e per sé, potrà mai garantire niente di simile. Se c'è una cosa, infatti, che la tecnologia non sarà mai in grado di fare è proprio questa: riuscire a gestire se stessa. La gestione della tecnologia (e in particolare dell'Information & Comunication Technology) non è mai un fatto solo tecnico, ma anche e soprattutto un fatto politico. Far finta di dimenticarlo non può far danni un po' a tutti - alla tecnologia, alla politica e a noi stessi.

di Guerino Sciulli

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